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Riforma dei porti: una sfida per il futuro dell’economia nazionale 

Riforma dei porti: una sfida per il futuro dell’economia nazionale 

Di Valentina Moriello – Uiltrasporti Campania 

C’è da tempo un progetto per cambiare radicalmente la governance e il sistema portuale italiano ed il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, e il suo Viceministro, Edoardo Rixi, ne parlano ormai da mesi. L’obiettivo è arrivare ad una legge delega entro la prossima primavera e licenziare il decreto legislativo nei 18 mesi successivi. 

Ma perché, a pochi anni dalla riforma del sistema portuale del 2016, si avverte la necessità di puntare ad un nuovo sistema di governance portuale? Quali sono i deficit che occorre ancora colmare? 

Per poter rispondere a questi quesiti e per comprendere appieno lo spirito con il quale sono sorte le Autorità Portuali divenute poi Autorità di Sistema Portuale con la riforma del 2016, occorre ripercorrere con un brevissimo excursus la nascita e la natura delle Autorità quali enti pubblici nel panorama della pubblica amministrazione italiana. 

Gli enti pubblici, infatti, sono nati come quelle strutture delegate dallo Stato a gestire specifici servizi o a tutelare interessi pubblici al di fuori di qualsiasi finalità di lucro e la maggior parte di questi enti ha sempre mostrato una vocazione altamente tecnica con la quale si è cercato di superare il deficit della vecchia amministrazione statale. 

Enti sorti, pertanto, con una vocazione prettamente specialistica, per distribuire servizi diretti. E tra questi anche le diverse e tante autorità, authority e “agenzie”, sorte dagli anni ’80 in poi in Italia.  

Un modello organizzativo questo delle autorità/agenzia nato in Svezia, nel XVIII secolo, e di lì diffusosi poi negli altri paesi, non senza variazioni di rilievo, ma comunque con il fine di agire in autonomia e libere da troppe catene burocratiche. 

In Italia, paese per eccellenza della burocrazia, tutto questo è risultato difficoltoso in tutti gli ambiti, porti compresi, dove nonostante l’istituzione delle Autorità Portuali, con la L. 84/94, e delle Autorità di Sistema Portuale con gli ultimi interventi normativi, non si è riusciti a svincolarsi dalle catene dell’apparato burocratico. 

Tali interventi, ora correttivi ora innovativi della riforma Madia, ci hanno restituito un sistema portuale senz’altro più snello, più veloce, più interconnesso e, quindi, probabilmente più competitivo nell’ambito dell’offerta di servizi per l’area del bacino del Mediterraneo.  

Si è cercato di andare oltre l’individualismo dei singoli scali portuali cercando una strategia di tipo nazionale, con la nuova volontà di fare sistema, non più concorrenza, scaturita da una necessità di coordinamento centrale gestita con la supervisione ministeriale. 

Eppure anche in questo disegno qualcosa è andato storto. 

E allora tante sono state le ipotesi che si sono succedute in questi ultimi mesi: dalla trasformazione delle attuali Autorità di Sistema, enti pubblici non economici, in Società per Azioni, piuttosto che in enti pubblici economici fino ad arrivare all’idea di una vera e propria holding. 

Si è ipotizzata una vera rivoluzione: trasformare le Autorità di sistema portuale in società miste pubblico-private, con la possibilità di investire all’estero e competere sui mercati globali. Un modello per rendere i nostri porti più agili e competitivi, ma che ha sollevato non poche perplessità. C’è chi ha ipotizzato, poi, un modello simile a quello aeroportuale dove convivono l’Enac a livello centrale e le singole società di gestione a livello territoriale. Ma comunque un soggetto in grado di trattare con i mega gruppi internazionali che oggi gestiscono tanta parte dello shipping, e soprattutto fare investimenti all’estero con partecipazioni strategiche in altre società di gestione portuali. 

Al di là di ogni ipotesi, sta di fatto che il ragionamento del governo è partito dalla convinzione dell’inadeguatezza della forma giuridica dei porti italiani. Come enti pubblici non economici, è la tesi dell’esecutivo, le autorità portuali costituiscono un unicum in Europa e la loro capacità operativa è ancora spesso frenata da procedure burocratiche e da processi decisionali farraginosi.  

Tuttavia, nonostante le numerose ipotesi, il Viceministro alle Infrastrutture e Trasporti, Edoardo Rixi, dal palco del convegno di Assiterminal con cui si è conclusa la Naples Shipping Week, ha recentemente svelato la riforma portuale che verrà. L’esponente di Governo ha sottolineato che “oggi serve trovare il modo di gestire la portualità italiana con una proposta complessiva. Serve un soggetto che coordini e che indirizzi gli investimenti privati; l’obiettivo di tutti è quello di coordinare le attività delle Autorità di sistema portuale”. Oltre a ciò Rixi ha aggiunto: “Usciamo dall’ideologia privato o pubblico, sicuramente il controllo deve rimanere pubblico. Non possiamo metterci nelle mani di chi non controlliamo. Ma abbiamo bisogno di capitali da investire sul sistema logistico”. 

Pertanto, l’ultima proposta punta ad un ente nazionale, una sorta di agenzia nazionale dei porti con poteri di indirizzo, gestione e coordinamento di attività delle singole autorità portuali. Un’attività di coordinamento necessaria ma che il Governo sa bene che difficilmente potrebbe essere svolta dal Ministero perché la macchina pubblica italiana è ancora particolarmente rigida. Occorrono, infatti, strumenti che possano essere operativi, smart, e che possano confrontarsi in modo molto più rapido con la realtà del mercato, con la tecnologia e la geopolitica in continua trasformazione, nonché, con le diverse realtà istituzionali dei vari enti.  

Sembra quindi essere stata superata l’ipotesi di una privatizzazione dei porti che ha destato tanta preoccupazione negli attori coinvolti, soprattutto nelle organizzazioni sindacali. Non va sottovalutato, infatti, che l’attuale sistema portuale ha raggiunto nei decenni un equilibrio tra lavoro, concorrenza leale e democrazia proprio perché il sistema pubblico che lo governa ha evitato i monopoli e ha garantito un fattore di controllo della democrazia a vantaggio dei lavoratori e dei cittadini. 

Tuttavia, è innegabile che la frammentazione, l’eccessiva burocratizzazione, la governance complessa e la scarsa integrazione dei porti con il sistema logistico hanno portato negli anni una minore efficienza complessiva del sistema, rallentando, così, i processi decisionali e l’attuazione di nuovi progetti. 

Se confrontiamo il sistema portuale italiano con gli altri sistemi portuali nord europei come quelli della Germania, dei Paesi Bassi e della Scandinavia, è evidente che questi hanno strutturato sistemi altamente efficienti e integrati con le reti logistiche europee. Questi paesi hanno investito in modo massiccio nella digitalizzazione e nell’automazione dei processi portuali, con procedure snelle e semplificate. 

Proprio volgendo lo sguardo verso l’Europa appare chiaro che la riforma del sistema portuale italiano può rappresentare un’opportunità unica per modernizzare il Paese e il settore portuale, rafforzando la sua competitività a livello internazionale. La creazione di un’agenzia nazionale dei porti potrebbe fornire una visione strategica a livello nazionale e coordinare le attività delle singole autorità portuali. 

Tuttavia, è necessario un approccio sistemico che tenga conto delle specificità del contesto italiano e di quello che forse rappresenta uno dei problemi più grandi del settore: la complessità, la frammentazione e la sovrabbondanza della normativa esistente. 

Per garantire il successo della riforma oltre ad incrementare la digitalizzazione e a favorire l’integrazione dei porti italiani con le reti logistiche è quanto mai necessario favorire la semplificazione e lo snellimento dei procedimenti. Ma sappiamo bene che svincolare la pubblica amministrazione dalla burocrazia richiede un impegno duro, costante e coordinato da parte di tutti gli attori coinvolti. 

La riforma dei porti italiani è, pertanto, un percorso lungo e complesso, pieno di ostacoli e sfide. Il successo dipenderà dalla capacità di superare le resistenze al cambiamento, di conciliare gli interessi di diverse parti e di garantire una governance trasparente ed efficiente. Il rischio è quello di perdere un’occasione unica per modernizzare il Paese e rafforzare la sua competitività.