RIDARE DIGNITÀ AL PAESE, ALLE PERSONE, AL LAVORO.

8 marzo 2025 – Il mondo delle donne, tra lavoro e opportunità

8 marzo 2025 – Il mondo delle donne, tra lavoro e opportunità

Di Giovanna Fadda – Uiltrasporti Liguria

Il lavoro delle donne provenienti da altri Paesi, in Italia rappresenta un tema complesso che coinvolge aspetti economici, sociali, culturali e politici. Le lavoratrici migranti, infatti, non solo contribuiscono in modo significativo all’ economia italiana, ma si trovano anche ad affrontare sfide particolari, legate alla loro condizione di migranti, alle discriminazioni di genere e alle difficoltà di integrazione nel mercato del lavoro.

Compiendo un excursus storico attraverso gli studi e le ricerche sulle migrazioni femminili si può notare che dopo un lungo disinteresse rispetto al fenomeno, la prima svolta avviene negli anni ‘70; fino ad allora, infatti, la migrazione della donna è considerata solo come un movimento di breve raggio, in gran parte interno al paese.

La trasformazione delle politiche migratorie in Europa e lo sviluppo degli women’s studies, hanno avviato una maggiore attenzione rispetto a questo fenomeno. Le prime migrazioni degli anni ‘70, provenienti in particolare dall’Africa e dall’Asia, avviano l’ipotesi di una nuova autonomia femminile nei processi migratori, dettata dalla ricerca di una nuova identità lavorativa e sociale. Sono donne che lasciano il proprio paese per le difficoltà del mercato del lavoro o per i bassi salari o per fattori politici, culturali e familiari.

L’attenzione all’universo femminile subisce un arresto negli anni ‘80, fossilizzandosi sulle valutazioni emerse dalle ricerche svolte negli anni addietro, nonostante si verificasse allora un aumento della presenza delle donne nei flussi migratori. Il dibattito politico e culturale si sposta verso l’interpretazione economica della presenza straniera e l’incidenza quantitativa degli irregolari e dei clandestini. È un periodo di transito, in cui si parla di invisibilità sociale delle donne immigrate, a causa della loro condizione lavorativa fra le mura domestiche e della loro tendenza a non frequentare centri di aggregazione e a non accedere alle strutture di accoglienza. Bisogna aspettare gli anni ‘90 per ritrovare una maggiore attenzione culturale, sociale e politica verso la migrazione femminile, che si caratterizza prevalentemente dall’arrivo in Italia di donne di origine araba che raggiungono i mariti, immigrati in precedenza per motivi di lavoro. Le donne più intraprendenti provengono dall’America Latina, dall’Europa dell’Est e dall’Estremo Oriente che migrano soprattutto per motivi di lavoro, lasciando il marito e i figli al proprio paese. Le prime che arrivano organizzano una rete di aiuti e di sostegni che prepara l’arrivo e l’accoglienza di altre donne, parenti e amiche. E così in un secondo tempo arrivano sorelle, cugine, amiche che trovano punti di riferimento, a volte sistemi abitativi e opportunità di lavoro. Il progetto, che inizialmente poteva caratterizzarsi dalla provvisorietà, sembra poi assumere connotati più definitivi e la tendenza per le donne sposate è di organizzare il ricongiungimento dei mariti, ma soprattutto dei figli.

L’Italia ha iniziato a dotarsi di norme in materia di immigrazione dalla seconda metà degli anni ‘80, ma è solo con la legge n. 40/98 (c.d. legge Turco-Napolitano, confluita nel Testo Unico n. 286/1998) che ha predisposto una disciplina organica sulla condizione del cittadino di nazionalità straniera. Questa normativa, oltre ad occuparsi della programmazione delle quote

e delle forme di contrasto dell’immigrazione irregolare, considera in particolare norme a garanzia dei diritti di cittadinanza sociale e disposizioni finalizzate alla tutela della donna immigrata. I Consultori familiari sono individuati come “i luoghi di elezione per l’accoglienza di donne e bambini stranieri temporaneamente presenti, per l’effettuazione di visite mediche, vaccinazioni, prescrizioni, programmi di prevenzione ecc”. Lo stesso articolo 35 del Testo Unico sull’immigrazione dedica particolare attenzione alla tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane. L’art. 19 del D.Lgs. 286/1998 dà la possibilità alla donna migrante in gravidanza di ottenere il permesso di soggiorno per cure mediche, con la presentazione di un certificato medico che attesti la gravidanza in atto. Questo permesso di soggiorno è temporaneo, è valido fino ad un massimo di sei mesi dopo il parto, con la registrazione sul permesso del neonato, e non è convertibile ad altri tipi di permesso. Allo scadere del sesto mese di vita del figlio però, sia la donna che il bambino si ritrovano in una condizione di irregolarità. Solo il possesso di un permesso di soggiorno regolare permette alla donna di usufruire dei servizi pubblici a sostegno della sua genitorialità e della cura del figlio. Ad esempio, l’iscrizione del bambino all’asilo nido comunale, necessario per conciliare gli impegni lavorativi, è possibile solo se la donna è titolare di un permesso di soggiorno, in cui è indicata una residenza.

L’inclusione in sistemi sociali quali l’economia, l’assistenza sociale e la scuola è basata, quindi, su un diritto legato al principio di residenza, e non su quello di cittadinanza. La vera sfida è tuttavia quella relativa all’applicazione del corpo normativo; il vero compito è ora lasciato alle Regioni e agli Enti Locali, che hanno margini di libertà nell’interpretazione e nell’applicazione delle normative nazionali. La legislazione, ha sicuramente rafforzato il principio del riconoscimento giuridico del diritto alla salute della popolazione immigrata, tuttavia la vera tutela della salute della popolazione immigrata non è solo legata alle norme che garantiscono l’accesso ai servizi, ma anche all’insieme delle condizioni di vita che classicamente fanno parte dei determinanti della salute: il reddito, l’istruzione, l’abitazione, le relazioni sociali. Ci si domanda quindi se l’attuale momento storico e politico possa essere considerato ancora come un periodo di passaggio, dall’affermazione dei diritti umani di tutela della salute all’individuazione e definizione di politiche attive che considerino la persona immigrata nel suo progetto migratorio e le sue necessità sociali, in relazione non solo alle condizioni d’emergenza o lavorative, ma in un’ottica di progettualità e di interazione costante con la società.

In Italia, l’integrazione delle donne migranti nel mercato del lavoro è un tema poco affrontato dalle politiche pubbliche. Nonostante l’esistenza di alcune iniziative, come i corsi di lingua e di formazione professionale, l’accesso al lavoro regolare e dignitoso per queste donne rimane limitato. Molte di esse, infatti, non riescono a superare le barriere linguistiche, le difficoltà burocratiche e le reticenze da parte dei datori di lavoro.

Molte donne arrivano in Italia mosse da un progetto migratorio emancipatorio, ma devono fare i conti con la doppia condizione di donne e straniere.

Solo il 47,5% delle donne straniere ha un’occupazione, a fronte del 74,9% degli uomini non italiani.

Le disparità di genere unite a quelle sulla nazionalità generano una doppia penalizzazione che impedisce alle donne straniere maggiore inclusione sociale e una piena emancipazione economica. A dimostrarlo sono i dati sull’occupazione e sulle retribuzioni.

Una delle questioni più importanti, quando si parla di migranti, è la loro integrazione nelle comunità in cui vivono. L’integrazione è un insieme di elementi non facilmente misurabili, un processo esteso nel tempo (e comunque mai del tutto irreversibile), complesso e multi-dimensionale. E comunque, senza un’integrazione di tipo economico, non si hanno mezzi materiali per il sostentamento e quindi per l’emancipazione all’interno del tessuto sociale nel quale ci si vuole integrare.

In questi ultimi anni, inoltre si è sviluppato il cosiddetto fenomeno dell’overqualification (in italiano traducibile come sovraqualificazione o iperqualificazione). È un fattore importante dell’integrazione lavorativa. Si tratta del fenomeno per cui una persona ricerca o accetta un lavoro che richiede una preparazione tecnica o accademica inferiore a quella posseduta. Solitamente si tratta di lavori meno prestigiosi e meno retribuiti rispetto a quelli a cui, in teoria, il candidato potrebbe aspirare. Questo fenomeno è particolarmente frequente tra i migranti.

Innanzitutto, perché questi si trovano a dover cercare un’occupazione in un paese di cui, in moltissimi casi, non conoscono sufficientemente la lingua. Spesso, poi, le loro competenze professionali non sono pienamente utilizzabili nel paese di arrivo, o il loro titolo di studio non viene riconosciuto. A giocare un ruolo importante è anche la mancanza di relazioni sociali utili a trovare un impiego, come anche la scarsa conoscenza del mercato del lavoro locale.

Considerati questi elementi, è chiaro che il fenomeno dell’overqualification dovrebbe essere transitorio, legato al processo stesso dell’integrazione. In realtà, però, raramente è così e gli stranieri, in Italia come nel resto dell’Ue, mantengono a lungo termine una situazione lavorativa stagnante.

Oggi, più che mai, siamo testimoni del cambiamento che stiamo vivendo, ma sappiamo anche che c’è ancora tanto da fare per garantire pari opportunità, diritti e giustizia.