Lo scorso 5 aprile si è tenuto un incontro organizzato dalla Uiltrasporti Emilia Romagna dal titolo “Congedi parentali e assegno unico. Tutte le novità del 2022”. All’evento ha partecipato la Segretaria Nazionale della Uiltrasporti Francesca Baiocchi.
Noto in passato come astensione facoltativa, il congedo parentale è un periodo di sospensione volontaria dalle attività lavorative che si configura come un diritto sia della madre che del padre, da poter esercitare nei primi dodici anni di vita del proprio figlio, per il soddisfacimento dei bisogni affettivi e relazionali del bambino. Attualmente, questo istituto è disciplinato dal d.lgs. 151/2001, denominato Testo unico sulla maternità e paternità e successive modifiche e integrazioni.
Nel nostro ordinamento, l’astensione facoltativa è stata introdotta nel 1971 dalla legge n. 1204. L’articolo 7 di tale legge prevedeva, trascorso il periodo di astensione obbligatoria, il diritto della lavoratrice ad astenersi dal lavoro per un periodo di sei mesi entro il primo anno di vita del bambino, conservando il proprio posto di lavoro. L’articolo 15, invece, riconosceva alla lavoratrice in astensione facoltativa, il diritto di usufruire di una indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione media giornaliera.
Nella sua prima formulazione, l’istituto era indirizzato in via esclusiva alla lavoratrice madre biologica, senza includere in alcun modo il genitore padre, riflettendo il retaggio culturale che purtroppo spesso, ancora oggi, vede la cura dei figli esclusivo compito della donna, pur riconoscendole da parte del legislatore le maggiori tutele possibili.
Solo dopo sei anni, nel 1977, la legge n. 903 “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, nell’art.6 estende le tutele anche alle lavoratrici madri adottive o affidatarie, e nell’art.7 ai lavoratori padri, biologici, adottivi o affidatari.
Ciononostante, un vero salto verso la parità resta incompiuto, perché nella pratica il soddisfacimento delle esigenze dei figli ha continuato ad essere prerogativa femminile prevalente, rispetto alla paternità. In effetti, il diritto del padre ad astenersi dal lavoro risulta ancorato a un meccanismo di estensione di una norma scritta solo per le donne, con l’astensione di 6 mesi per i genitori maschi riconosciuta solo in alternativa al diritto della lavoratrice madre e dietro il suo consenso, oppure esercitato in caso di lavoratore padre affidatario. Anche per quanto concerne la parte economica, il riferimento resta la legge n. 1204 del 30 dicembre 1971, confermando il criterio di indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione media giornaliera.
Sulla base di queste normative cardine e di alcune sentenze della Corte Costituzionale, si arriva così alla legge n.53 dell’8 marzo 2000, che riprende in forma rivisitata l’astensione facoltativa. Al Capo II, dove il legislatore colloca i congedi parentali, pur mantenendo la dicitura “astensione facoltativa” che segnala la flebile evoluzione sociale del Paese, i contenuti ne vengono tuttavia completamente cambiati. La nuova legge, infatti, introduce la previsione di astensione dal lavoro per entrambi i genitori, estendendo l’istituto anche ai padri, uscendo in tal modo definitivamente dalla logica della derivazione del diritto, che lo ancorava alla rinuncia della madre. L’art. 3 (Congedi per genitori) della nuova legge fa riferimento a una figura generica di genitore lavoratore, svincolandola dalla specifica di genere. Si amplia anche l’arco temporale di fruizione dell’astensione dal lavoro, passando dal primo anno agli otto anni di vita del bambino, e si introduce una indennità a favore del genitore fino al terzo anno di vita del bambino, pari al 30% della retribuzione, per un periodo massimo, calcolato sul cumulo dei due genitori, di sei mesi. Infine, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, l’art. 15 disponeva l’emanazione di un decreto legislativo, recante il testo unico della normativa vigente in materia di tutela e sostegno della maternità.
Le norme della legge n.53 confluiscono, quindi, nel d.lgs. 26 marzo 2001 n.51 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, che diviene il frutto di una evoluzione normativa di 30 anni di giurisprudenza, in un contesto di cambiamento culturale e politico del paese: nel T.U. diviene centrale il diritto della prole ad avere genitori presenti, che possano assolvere al compito di assistenza relazionale e materiale.
Nel 2015 il “Jobs Act”, d.lgs. n. 80, introduce ulteriori misure per favorire la conciliazione delle esigenze di cura con il lavoro, modificando quanto disposto nel T.U. del 2001. Nell’art. 7 della nuova normativa viene innalzato a 12 anni il limite di fruizione del congedo parentale e si eleva da 3 a 6 anni del bambino il limite entro il quale si ha diritto alla corresponsione economica (art.9), lasciando l’indennità al 30% della retribuzione media giornaliera.
In sintesi, l’iter della normativa sui congedi parentali mostra un cambiamento culturale del nostro Paese, che ha condotto verso maggiori tutele di figli, madri e padri, benchè la misura economica del 30% sia purtroppo rimasta graniticamente fissa al 1971. In mezzo secolo nessun intervento della politica sociale ed economica italiana ha previsto una migliore remunerazione dei congedi (eccezion fatta di quelli transitori Covid al 50%). Continua a persistere una mancata valorizzazione sociale ed economica della maternità/genitorialità e dell’attività di cura in generale. La spesa pubblica italiana ha pedissequamente continuato negli anni a devolvere poche risorse e scarse risposte alle necessità sociali delle famiglie, producendo la perdurante carenza strutturale dei servizi sociali a sostegno del lavoro di cura e per l’infanzia, continuando a scaricare sule spalle “private” delle donne e delle famiglie compiti che in una società civile e progredita dovrebbero essere di interesse pubblico generale.
I risvolti oggettivi di tale situazione sono facilmente rinvenibili nei tassi di natalità, che in Italia sono incardinati in un processo di avvitamento continuo verso il basso. A questo si aggiunge una occupazione femminile spesso precaria e comunque sotto la media europea, con punte drammatiche nel Sud Italia, a cui si aggiunge l’insufficienza di servizi a sostegno del lavoro di cura e per l’infanzia. Serve una nuova responsabilità politica che revisioni la misura sul sostegno finanziario ai genitori, disponendo l’innalzamento dell’attuale previsione economica per i congedi parentali (30%) almeno all’80%.
In questo ambito, la contrattazione sindacale può svolgere un importante ruolo, con politiche di sostegno alla genitorialità con integrazioni e/o estensioni dei congedi parentali, stimolando l’uscita dalle logiche che finora hanno prodotto profonde asimmetrie, pensando alla distribuzione dei carichi di cura tra donne e uomini come istituti contrattuali soprattutto per le lavoratrici. Allo stesso tempo, il Sindacato deve rivendicare nei confronti dello Stato l’attivazione di provvedimenti volti a sanare il grave deficit dei servizi sociali, richiamandolo al suo ruolo di principale artefice delle politiche conciliative e di welfare.